La quarantena come arena emotiva

Inauguro questa rubrica, destinata a raccogliere contributi di professionisti provenienti da altri ambiti, con le considerazioni scaturite dalle supervisioni psicologiche online del collega dell’Università della Strada Ezio Farinetti.

Ezio Farinetti

La nostra nuova convivenza con il virus vede notevoli risvolti anche da un punto di vista emotivo. La condizione di maggiore ritiro e l’attenzione a come stiamo ci rende sicuramente più sensibili, più in balia dei nostri vissuti: stare di più a casa è una palestra di autocentratura emotiva, amplifica l’effetto del nostro sentire.

A livello generale si è assistito, mi pare, ad un certa ciclicità. I primi tempi del lockdown sono stati comunque pervasi da quella vaga sensazione euforica che anima tutti i cambiamenti, anche quelli meno graditi: la novità viene contattata con una certa energia, ci siamo sentiti ingaggiati in prima persona in una serie di azioni protettive per noi e per altri, che hanno riempito e dato senso alle nostre giornate. Un’effervescenza quasi sorprendente ci ha portato sui balconi a cantare, a suonare, a condividere gioiosamente un comune destino di reclusione con i nostri vicini, fino a quel tempo non così considerati. Con il passare del tempo però la curva dell’umore ha passato il suo picco e ha cominciato a scendere, e si sono affacciati in molti di noi vissuti più grevi, cenni depressivi: si è progressivamente esaurita la spinta propulsiva a fare, a muoversi, ad aprirsi, e ci siamo ritrovati più soli, disorientati e senza una precisa idea del next, del nostro futuro prossimo. Due colleghi e maestri, Francesetti e Gecele, hanno parlato di questo periodo come di un’atmosfera bipolare collettiva, in un bello scritto su psychiatryonline.it dai toni poetici e fenomenologici.

È una condizione che gli operatori condividono con le persone che seguono, e allora diventa campo emotivo comune da abitare insieme e di cui si può parlare. Si sono moltiplicati i racconti dei nostri utenti perennemente in pigiama, che faticavano a fare qualsiasi cosa durante la giornata, che riportavano una sensazione perdurante di vuoto, di noia, che faticavano a dormire la notte e che rimanevano per ore ipnotizzati davanti allo schermo del loro cellulare. Sono vissuti comuni che possono anche darci le coordinate per i nostri interventi, laddove il nostro aiuto non consiste tanto nel riempire le giornate delle persone con ripetute proposte animative, quanto piuttosto nell’accompagnarle a risignificare le giornate: se prima erano il rapporto con l’ambiente, i nostri compiti e lavori a scandire i ritmi del tempo, ora abbiamo bisogno di riorganizzare una nostra esperienza della quotidianità domestica, e, quando è necessario, tollerare il vuoto, la noia, l’incertezza.

Ezio Farinetti

Questi sono anche tempi di ansia, perché il Covid ha agito come un terremoto sulle nostre basi scontate di sicurezza. Per riprendere un termine caro alla riflessione bioenergetica di Lowen, è come se il nostro ground, il patrimonio scontato delle nostre certezze che quotidianamente ci guida e ci spinge in ciò che sentiamo e facciamo, si fosse rarefatto e improvvisamente indebolito. L’ansia è l’effetto di questa improvvisa escursione termica di sicurezza, un evento – il virus – che non ci permette di affidarci ai riferimenti soliti e ci lascia senza fiato, senza solide fondamenta a cui appoggiarsi. Diventa allora importante in questi giorni costruire, ricostruire e scoprire un nostro patrimonio di sicurezze, superare il colpo dello smarrimento e ritrovare in noi la solidità, le competenze e le risorse che sono presenti, e che questo momento crisi non ha reso temporaneamente disponibili. Può anche essere un’occasione interessante di revisione personale e di rifondazione identitaria, che porta a lasciare e a trasformare alcuni nostri riferimenti abituali.

Galimberti in un recente video ci invita a usare questo tempo per passare dall’angoscia alla paura. A prima vista non sembra un grande invito, ma fermiamoci un attimo a riflettere. Se l’angoscia è una condizione aperta e mai definita di tensione rivolta all’ambiente, la perdurante e logorante sensazione di un evento negativo comunque incombente, la paura al contrario, pur nella fatica emotiva che comporta, ha il pregio di una precisione di oggetto. Si ha sempre “paura di” qualcosa, è chiara e definita la minaccia da cui siamo chiamati a difenderci. Una dose omeopatica di paura ci è utile in questi giorni, come cittadini e come operatori, perché guida le nostre pratiche di protezione e ci permette di stare in una sufficiente condizione di sicurezza. Laddove invece questo vissuto diventa invece eccessivo ci paralizza di fronte ad un nemico – il virus – così invisibile e pervasivo da non poterci mai garantire una “comfort zone” definitiva, una completa rassicurazione: troppa paura e troppa angoscia non ci fanno più pensare. L’ultimo vissuto che mi piace toccare è più leggero, è quel senso di calore, di pace e di intimità che il rallentamento dei nostri ritmi e la possibilità di passare più tempo con le persone che amiamo può regalarci: è la riscoperta di piccole abitudini, è tornare a cucinare, è accorgersi di cambiamenti – nella casa e nelle persone accanto a noi – che prima erano passati inosservati. Ovviamente questo dipende da situazione a situazione: in una recente ricerca che mi è capitato di leggere “più tempo a casa” e “maggiore vicinanza alla famiglia” erano indicati contemporaneamente tra i primi benefici e contemporaneamente tra le prime criticità di questo periodo. Ciò è ancora amplificato quando tra le mura di casa si vivono condizioni di disagio e purtroppo di aperta violenza, e allora il riferimento a vissuti piacevoli si rompe drammaticamente. Al di là di queste storie dolorose, che non devono essere dimenticate e verso cui si deve mantenere alta l’attenzione anche in questi tempi, mi piace poter concludere con la possibilità di poter cogliere e apprezzare piccoli segnali di gioia, di rilassamento, di condivisione che troviamo nelle vite nostre e delle persone che accompagniamo.

Sono Ezio Farinetti e sono uno psicologo. Ho lavorato come operatore residenziale e territoriale nella salute mentale torinese, e negli ultimi 15 anni ho accompagnato équipe di operatori sociali in giro per l’Italia in percorsi di supervisione. Mi sono appassionato e ho approfondito i temi dell’aggressività e del conflitto, delle dipendenze, della relazione di aiuto, del lavoro di gruppo e dello sfondo organizzativo del nostro agire. Mi alleno come agricoltore dilettante.