Anche questa settimana ringrazio Ezio Farinetti dell’Università della Strada per la nuova riflessione che mi gentilmente concesso. Qui invece trovate il suo intervento precedente.

C’è un tema che in questi giorni sollecita la riflessione di molti operatori, una questione che riguarda direttamente il loro lavoro, ma che trascende in una dimensione più generale. Da una parte questo periodo di lockdown è stato per tutti una palestra di corresponsabilità. Si stava chiusi – a casa o in comunità – non solo per salvaguardarsi da un possibile contagio che ci avrebbe messo in difficoltà da un punto di vista sanitario, ma anche per non diventare noi stessi vettori sani e inconsapevoli del male, ignari agenti di trasmissione del virus verso altre persone potenzialmente più vulnerabili. È interessante notare che questo tema ha attraversato i pensieri di tutti, dagli operatori ai beneficiari dei nostri interventi.
Pochi giorni fa un educatore confessava in supervisione la duplice paura di essere lui stesso “un untore”, preoccupandosi sia per quando si stava recando al servizio sia per la sua stessa famiglia, in quanto era lui l’unico a “uscire” e quindi a rischiare il contatto. Allo stesso tempo questo diventa un tema di confronto educativo con le persone accompagnate: forse mai come in questo tempo (o perlomeno dai tempi più critici dell’HIV) è cambiata radicalmente la geografia del rischio.
È vero, ognuno di noi in questi anni ha lavorato sulla consapevolezza circa le possibili conseguenze negative del proprio comportamento non solo per sé ma anche per gli altri (ad esempio mettendosi alla guida ubriaco e quindi candidando anche gli altri ai potenziali danni di un incidente stradale); era una possibilità che stava però sostanzialmente sullo sfondo, in primo piano ero io a rischiare e quindi a pagare in prima persona le possibili ricadute del mio atto. C’era una maggiore delimitazione del terreno di considerazione, erano le mie scelte e i miei errori a segnare un danno personale o una salvaguardia.
Lo scenario del virus ha dissolto questo confine e la propria capacità di autodeterminazione nel bene così come nel male: il virus può manifestarsi così come rimanere silente, il semplice avvicinamento e contatto carichi di buone intenzioni rischiano di trasformarsi in involontarie trasmissioni virale. Si crea così un’atmosfera relazionale densa, dove corresponsabilità e toni paranoici vanno a braccetto: è sottile il confine tra un’attenzione protettiva verso l’altro e il consolidarsi di un’allerta rigida e soffocante.
Si tratta però di un tema imprescindibile in ogni confronto con i ragazzi e gli adulti che seguiamo, perché segnala il necessario bilanciamento tra la libertà della persona e la sua corresponsabilità nell’arginare o nel moltiplicare la dinamica di contagio. Questa dialettica deve essere espressa e affrontata, affinché non si trasformi in uno sterile scontro tra fautori di una posizione (in un post di questi giorni di un’attivista No Vax, che condannava il clima di panico generale, c’era scritto “Il vostro divieto finisce là dove inizia la mia libertà”) o dell’altra (vedi il tono spesso esasperato con cui, nei media e nei social, si è condannato nelle settimane passate ogni comportamento non conforme alle prescrizioni sanitarie). Se la fase 1 aveva la radicalità e anche la chiarezza di una netta presa di posizione (“state a casa, rinunciate alla possibilità di uscire e incontrarvi, è indispensabile preservare la salute”), le fasi successive avranno a che fare con toni più sfumati e quindi inevitabilmente più complessi.

La gente si muoverà, gli incontri avverranno, i tanti temuti assembramenti si concretizzeranno in una coda di attesa o in uno spazio più ristretto: i nostri utenti usciranno di più, i ragazzi si incontreranno e vorranno riappropriarsi di loro dimensioni di socialità, divertimento e piacere, le strade si ripopoleranno, i servizi stessi riapriranno, cercando di conciliare la loro mission con una costante attenzione alla sicurezza. Questo tema sarà (e lo già ora) un passaggio cruciale e inevitabile per le équipe di operatori, che dovranno ragionarci e trovare una mediazione non più racchiudibile in una netta prescrizione, in cui un’opera di costante sensibilizzazione ai rischi dovrà conciliarsi con un’inevitabile esposizione al pericolo.
Non ci sono risposte facili e preconfezionate, c’è il valore di una discussione veramente capace di contemplare tutte le posizioni in gioco. Sul lato della sicurezza e della protezione c’è un appello alla responsabilità comune che mi sembra un importante antidoto all’esasperato individualismo di questi anni. In una sua canzone l’amato Vasco Rossi dice «quando c’ho il mal di stomaco, ce l’ho io mica te, o no?»: beh, oggi forse la risposta potrebbe essere un po’ diversa rispetto al passato, un oggi che in modo plastico segna il fatto che una mia incosciente esposizione possa mettere in condizioni di sofferenza altri. D’altra parte c’è la libertà e la necessità di riappropriarsi del proprio tempo e spazio, che non possono essere derubricate eternamente a questioni secondarie e sacrificabili, ma che devono essere accolte e conciliate con le istanze di protezione.
C’è da fare molta attenzione perché in questi tempi in cui la tensione circola liberamente è molto facile creare capri espiatori, parafulmini su cui scaricare l’energia negativa di una situazione pesante e sentita come ingiusta: i nostri utenti, ragazzi “incoscienti” che hanno voglia di incontrarsi e fare festa, così come persone adulte dai comportamenti spesso “irregolari”, si candidano ahimè perfettamente a questo ingrato ruolo. Leggete i commenti rivolti anche solo recentemente al “ritorno della movida” a Milano e non troverete solo pacata preoccupazione, vedrete rabbia e richieste di punizioni esemplari.
Non c’è una soluzione a questa equazione, che per poter esistere deve restare complessa, ma c’è la necessità – da parte di tutti noi – di pensarci.
Sono Ezio Farinetti e sono uno psicologo. Ho lavorato come operatore residenziale e territoriale nella salute mentale torinese, e negli ultimi 15 anni ho accompagnato équipe di operatori sociali in giro per l’Italia in percorsi di supervisione. Mi sono appassionato e ho approfondito i temi dell’aggressività e del conflitto, delle dipendenze, della relazione di aiuto, del lavoro di gruppo e dello sfondo organizzativo del nostro agire. Mi alleno come agricoltore dilettante.