No time, no space

Un paio di settimane fa fa ho avuto l’appello d’esame di Antropologia culturale per gli studenti dell’ISIA. Sono abituato a ricevere l’elenco degli iscritti alcuni giorni prima, ma venerdì ancora non avevo ricevuto nulla, così nel pomeriggio ho scritto una mail alla Segreteria ricevendo pronta risposta. Sabato ricevo una seconda mail: inusuale ma non eccessivamente strano; domenica pomeriggio ricevo una terza mail (la burocrazia degli esami in remoto è in continua evoluzione): questo comincia a sembrarmi bizzarro.

Bizzarro fino a un certo punto. In pieno lockdown, assieme ai colleghi Cingolani, Portis e Vietti, mi è capitato di occuparmi del corso di Antropologia dei contesti scolastici ed educativi per il percorso dei 24 crediti propedeutici al concorso degli insegnanti che dovrebbe tenersi in autunno.

Dovrebbe tenersi da tre autunni, a dire il vero.

La modalità scelta dal CIFIS quest’anno, vista l’impossibilità di tenere il corso in presenza, è passata attraverso la realizzazione di una serie di slide commentate. I tempi erano abbastanza stretti, a me è toccato il primo blocco di lezioni, che sono state realizzate più o meno nell’arco di due settimane e rilasciate in tre tranche. Per ben due volte ho inviato alla segreteria i file a ridosso o nel bel mezzo del weekend, la risposta è stata immediata e le lezioni sono state pubblicate sul sito di sabato o domenica.

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Giustificato ma non giusto

Un innato bisogno di ordine e simmetria sembra attraversare la storia della scrittura (per lo meno nell’area occidentale e medio-orientale) e trasferirsi poi in quella della stampa. La tendenza alla regolarità delle forme è facilmente riscontrabile fin dall’antichità, basti pensare alle caselle atte a contenere i geroglifici egizi o alle linee su cui si dispiegavano caratteri cuneiformi, quasi righe di un quaderno.

È solo con il perfezionarsi dell’arte degli amanuensi, e quindi con l’introduzione dei caratteri latini, che si assiste a un fenomeno che troverà il suo compimento nella tipografia: la giustificazione. Ovviamente, trattandosi di manoscritti, è una costante approssimazione quella che porta le parole ad allargarsi o stringersi per meglio adattarsi alle colonne che scandivano le pagine, la stessa usanza di abbreviare in sigle affonda le sue ragioni in questa pratica. A metà del Quattrocento, l’argentiere Johannes Gutenberg mette a punto il sistema che gli consente di stampare il primo libro, una bibbia che contiene 42 righe per pagina, che perfeziona i tentativi dei monaci. I caratteri mobili possono essere disposti ordinatamente per dare forma a una pagina con due colonne perfettamente giustificate, cosa che accadrà fino alla fine dell’Ottocento, quando anche questa operazione di disposizione si farà meccanizzata.

Geroglifici e codici miniati
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Contaminazioni fase 2

L’idea della collana Contaminazioni risale ormai a qualche anno fa, ma solamente nel 2019, grazie a Federica Tarabusi, si è tradotta in un primo volume. I metodi puri impazziscono è stato un libro realizzato in tempi record, ricordo chiaramente la notte in cui abbiamo elaborato (a distanza) la call for papers, vivevo in un monolocale rustico nel centro di Perugia, durante una delle trasferte della ricerca PAS.

Nove mesi di gestazione tra proposte, scritture, un doppio giro di revisioni, riscritture ed editing. A dicembre scaricavo i due scatoloni freschi di stampa dal baule della macchina che aveva condotto Federica al convegno SIAA di Ferrara. E finora quella di Ferrara rimane anche l’unica presentazione del volume, il lockdown ha interrotto (per ora) gli sviluppi che avevamo immaginato.

La copertina del volume realizzata da Giulia Raczek
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Un etnologo sul treno

L’habitué di una linea si riconosce agevolmente dall’elegante e naturale economia del suo incedere. Come un vecchio lupo di mare che scenda al mattino presto con passo calmo verso la sua imbarcazione valutando con un colpo d’occhio il susseguirsi delle onde all’uscita del porto, misurando la forza del vento con aria apparentemente distratta, fors’anche un po’ atteggiata benché meno dell’intenditore di vino, e ascoltando, senza che sembri prestarvi attenzione, lo sciacquio del flutto contro il molo e il clamore dei gabbiani ancora radunati sulla riva o già sparpagliati sul mare in piccole truppe avide, così il viaggiatore consumato, soprattutto se è nel pieno degli anni e non cede facilmente alla voglia di una partenza improvvisa, si riconosce dalla perfetta padronanza dei suoi movimenti.

È il 1986 quando Marc Augé pubblica Un etnologo nel metrò uno degli ultimi testi di antropologia che hanno saputo superare il confine dell’accademia e divenire dei “classici” anche per il pubblico generalista. Tempi che ormai paiono lontani, quelli in cui era necessario ribadire che l’antropologia è la scienza dell’ordinario, anche quando non si occupa di una popolazione della Costa d’avorio ma della quotidianità parigina.

Ho ripensato al libretto di Augé qualche giorno fa quando, dopo mesi di sedentarietà forzata, ho compiuto un tragitto per me ordinario, quello che va da Torino a Faenza, dove insegno. L’occasione era data da un incontro informale tra docenti, alla fine di un anno scolastico complicato, in particolare in un istituto che fa dell’attività laboratoriale il suo fiore all’occhiello.

L'interno di Italo
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Ricongiungimenti postumi

La leggenda narra che Frank Lloyd Wright si recò in visita alla Dome House, il primo incarico professionale realizzato da Paolo Soleri, su incarico della famiglia della futura moglie Colly. Un uomo dinoccolato, avvolto in un completo grigio di taglio largo, circondato dall’aura di carisma procuratosi sul campo, in veste di architetto che aveva tradotto il sogno americano nel linguaggio del cemento. Lloyd Wright si aggirò nell’open space di cui l’abitazione è costituita e puntando il bastone alle pareti, a indicare particolari architettonici, ne sottolineò la paternità, «That’s mine… That’s mine…», finché, soffermandosi sul pavimento intarsiato di cemento multicolore, «That’s Paolo».

Frank Lloyd Wright
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