Giustificato ma non giusto

Un innato bisogno di ordine e simmetria sembra attraversare la storia della scrittura (per lo meno nell’area occidentale e medio-orientale) e trasferirsi poi in quella della stampa. La tendenza alla regolarità delle forme è facilmente riscontrabile fin dall’antichità, basti pensare alle caselle atte a contenere i geroglifici egizi o alle linee su cui si dispiegavano caratteri cuneiformi, quasi righe di un quaderno.

È solo con il perfezionarsi dell’arte degli amanuensi, e quindi con l’introduzione dei caratteri latini, che si assiste a un fenomeno che troverà il suo compimento nella tipografia: la giustificazione. Ovviamente, trattandosi di manoscritti, è una costante approssimazione quella che porta le parole ad allargarsi o stringersi per meglio adattarsi alle colonne che scandivano le pagine, la stessa usanza di abbreviare in sigle affonda le sue ragioni in questa pratica. A metà del Quattrocento, l’argentiere Johannes Gutenberg mette a punto il sistema che gli consente di stampare il primo libro, una bibbia che contiene 42 righe per pagina, che perfeziona i tentativi dei monaci. I caratteri mobili possono essere disposti ordinatamente per dare forma a una pagina con due colonne perfettamente giustificate, cosa che accadrà fino alla fine dell’Ottocento, quando anche questa operazione di disposizione si farà meccanizzata.

Geroglifici e codici miniati
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Contaminazioni fase 2

L’idea della collana Contaminazioni risale ormai a qualche anno fa, ma solamente nel 2019, grazie a Federica Tarabusi, si è tradotta in un primo volume. I metodi puri impazziscono è stato un libro realizzato in tempi record, ricordo chiaramente la notte in cui abbiamo elaborato (a distanza) la call for papers, vivevo in un monolocale rustico nel centro di Perugia, durante una delle trasferte della ricerca PAS.

Nove mesi di gestazione tra proposte, scritture, un doppio giro di revisioni, riscritture ed editing. A dicembre scaricavo i due scatoloni freschi di stampa dal baule della macchina che aveva condotto Federica al convegno SIAA di Ferrara. E finora quella di Ferrara rimane anche l’unica presentazione del volume, il lockdown ha interrotto (per ora) gli sviluppi che avevamo immaginato.

La copertina del volume realizzata da Giulia Raczek
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Ricongiungimenti postumi

La leggenda narra che Frank Lloyd Wright si recò in visita alla Dome House, il primo incarico professionale realizzato da Paolo Soleri, su incarico della famiglia della futura moglie Colly. Un uomo dinoccolato, avvolto in un completo grigio di taglio largo, circondato dall’aura di carisma procuratosi sul campo, in veste di architetto che aveva tradotto il sogno americano nel linguaggio del cemento. Lloyd Wright si aggirò nell’open space di cui l’abitazione è costituita e puntando il bastone alle pareti, a indicare particolari architettonici, ne sottolineò la paternità, «That’s mine… That’s mine…», finché, soffermandosi sul pavimento intarsiato di cemento multicolore, «That’s Paolo».

Frank Lloyd Wright
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Più copertine che vita

La didattica è un ambito in cui non si finisce mai di imparare. Nella gran parte dei casi per me si tratta di ripartire dall’inizio, in tutti i sensi. Innanzitutto, perché insegno quasi esclusivamente a non antropologi, il che significa da un lato dover rinunciare alla possibilità di dibattiti su temi specifici, approfondimenti su autori, metodi e una serie di altre cose. Dall’altro significa dover ricalibrare gli strumenti ogni volta sulla base della provenienza e gli interessi del pubblico che si ha di fronte. Una serie di cose complicate vanno rese semplici e catchy, comprendere il mondo del pubblico che si ha di fronte è di grande aiuto perché costituisce un serbatoio di esempi che funzionano e tengono alto il livello dell’attenzione.

All’ISIA di Faenza ci siamo accordati affinché ogni anno si decida collegialmente un tema portante a cui i vari programmi di studio si debbano adeguare. Quindi buona parte delle lezioni vengono riadattate di anno accademico in anno accademico. Nonostante questo, ci sono dei miei pallini a cui non sono disposto a rinunciare: qualche passaggio su antropologia pubblica e applicazione non manca mai. Settantacinque ore di corso consentono di affrontare un discreto numero di temi, il problema è farlo evitando di decimare l’aula. La cosa bella dei designers (facciamo una delle cose belle, va…) è che si può portare ad un altro livello il senso di lavoro dello studente. A un aspirante antropologo o antropologa si chiede una tesina, una presentazione in aula, al massimo dei piccoli approfondimenti di gruppo. Ai designers si chiede di immaginare mondi, una restituzione fatta da un designer da alla forma la stessa importanza che ha la sostanza. Più li si incita a sbizzarrirsi sul loro terreno e più loro ti conducono su terreni inesplorati, cambiando le forme, alterando i colori, rompendo le strutture. Se si è abbastanza bravi (o fortunati) si riesce a passare allo step successivo, perché dopo averle fatte a pezzi, le strutture vanno riassemblate, e in modo da avere un senso. L’anno scorso ho deciso di unire l’utile al dilettevole. Ho stressato l’assemblea della SIAA finché non hanno accettato di farmi mettere mano alla copertina di Antropologia Pubblica.

La prima e la seconda versione della copertina di Antropologia Pubblica
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