L’habitué di una linea si riconosce agevolmente dall’elegante e naturale economia del suo incedere. Come un vecchio lupo di mare che scenda al mattino presto con passo calmo verso la sua imbarcazione valutando con un colpo d’occhio il susseguirsi delle onde all’uscita del porto, misurando la forza del vento con aria apparentemente distratta, fors’anche un po’ atteggiata benché meno dell’intenditore di vino, e ascoltando, senza che sembri prestarvi attenzione, lo sciacquio del flutto contro il molo e il clamore dei gabbiani ancora radunati sulla riva o già sparpagliati sul mare in piccole truppe avide, così il viaggiatore consumato, soprattutto se è nel pieno degli anni e non cede facilmente alla voglia di una partenza improvvisa, si riconosce dalla perfetta padronanza dei suoi movimenti.
È il 1986 quando Marc Augé pubblica Un etnologo nel metrò uno degli ultimi testi di antropologia che hanno saputo superare il confine dell’accademia e divenire dei “classici” anche per il pubblico generalista. Tempi che ormai paiono lontani, quelli in cui era necessario ribadire che l’antropologia è la scienza dell’ordinario, anche quando non si occupa di una popolazione della Costa d’avorio ma della quotidianità parigina.
Ho ripensato al libretto di Augé qualche giorno fa quando, dopo mesi di sedentarietà forzata, ho compiuto un tragitto per me ordinario, quello che va da Torino a Faenza, dove insegno. L’occasione era data da un incontro informale tra docenti, alla fine di un anno scolastico complicato, in particolare in un istituto che fa dell’attività laboratoriale il suo fiore all’occhiello.
Nel corridoio che lo conduce alla banchina, cammina senza pigrizia e senza fretta, senza che nulla lasci trapelare quanto i suoi sensi siano all’erta. Quando, come sorto dai muri di maiolica, giunge il rumore di un convoglio, che fa smarrire la maggior parte dei passeggeri occasionali, lui sa se è il caso di aumentare il passo o no, sia che valuti con cognizione di causa la distanza che lo separa dalla banchina decidendo se tentare o meno la sorte, sia che identifichi l’origine del frastuono provocatore riconoscendo in quella lusinga (specifica delle stazioni in cui passano più linee e che il francese per questa ragione definisce «corrispondenze», laddove l’italiano, più preciso ed evocatone, parla di «coincidenze») un richiamo venuto da altrove, l’eco ingannatrice di un altro treno, la tentazione dell’errore e la promessa dell’erranza.
Se dovessi sommare le ore della mia vita che ho trascorso viaggiando in treno (e muovendomi da o verso una stazione ferroviaria), credo che l’unità di misura adatta a contarle potrebbero essere i mesi. Fino al mese di febbraio non era infrequente per me trascorrere uno o due notti la settimana fuori casa, in altre città, raggiunte in treno per lo più. Si può dire che il reticolo delle ferrovie italiane mi restituisse la stessa valenza che Augé rintracciava nella mappa della metro parigina. Tutta la sicurezza ostentata dal viaggiatore abituale e descritta da Augé è scomparsa, la sicurezza fornita dalla percezione della normalità scricchiola sotto il peso delle misure di distanziamento sociale.
Giunto sulla banchina, il nostro viaggiatore consumato sa già dove fermarsi, stabilendo una posizione che gli permette di accedere senza sforzo alla porta di un vagone e che corrisponderà poi esattamente al punto più vicino alla «sua» uscita sulla banchina di arrivo. Si possono così vedere i vecchi habitués scegliere meticolosamente il punto di partenza e poi posizionarsi quasi come gli atleti pronti a lanciarsi nella corsa. I più scrupolosi spingono il loro zelo fino a scegliere la posizione migliore all’interno del vagone per poter uscire il più rapidamente possibile una volta arrivati. Più stanchi o più anziani, alcuni tentano di conciliare questo imperativo tattico con la necessità del riposo e si impadroniscono dell’ultimo strapuntino libero con un misto di discrezione e di celerità che rivela, anch’esso, l’uomo di esperienza.
La stazione di Porta Nuova a Torino è arredata di transenne che delimitano percorsi obbligati di entrata e uscita, seguo diligentemente il mio corridoio, come un topo nel labirinto, la mia temperatura corporea viene scansionata e accedo al binario. Non sono più sicuro come un tempo, vedo persone che si aggirano lungo la banchina, fumano, si salutano, alcuni hanno la mascherina, altri no. Mi trovo a pensare se sia il caso di indossarla o meno, lo faccio e salgo sul treno.
L’estrema precisione di questi gesti meccanici evoca la disinvoltura dell’artigiano quando modella l’oggetto del suo lavoro. L’utente del metrò ha a che fare essenzialmente con il tempo e lo spazio, abile nel basare l’uno sull’altro. E tuttavia non ha nulla di un filosofo kantiano; si adatta al rigore della materia e all’ingombro dei corpi, attenuando con un movimento del polso lo slancio di una porta sbattuta da un ragazzo incurante, vidimando con mano ferma il biglietto del suo abbonamento nella stretta fessura delle porte di accesso, sfiorando i muri e prendendo stretta la curva del corridoio, facendo due a due gli ultimi scalini prima di saltare nella vettura socchiusa e sfuggire con un colpo di reni alla stretta della porta automatica, per esercitare poi un’insistente pressione con gli avambracci sulla massa inerte di quelli che, avendolo preceduto, non immaginavano che un altro potesse seguirli.
Ogni viaggiatore abituale ha delle fissazioni. Io ho sempre preferito sedere vicino alle porte degli scompartimenti (che bello sedere nell’ultimo posto del treno!) e nel sedile che dà sul corridoio. Ci sono pro e contro a questa scelta: può capitare di doversi alzare anche parecchie volte per fare passare il proprio compagno di viaggio che siede sul lato finestrino, d’altra parte non inibisce la propria libertà di muoversi liberamente per il convoglio.
Se c’è una cosa che detesto è sedermi nei quattro posti frontali divisi da un tavolino e passare tutto il viaggio giocando a Tetris tra le mie gambe e quelle del passeggero di fronte (anche per questo ritengo le sedute di Italo più comode di quelle delle Frecce).
Ora la capienza dei treni è stata dimezzata e la seduta è obbligata. Finisco sul lato finestrino, sono comunque libero, non c’è nessun passeggero al mio fianco. La mascherina è fastidiosa, la abbasso, la rialzo, la riabbasso, la tolgo da un orecchio e la lascio appesa. La tengo per un po’ premuta sulla faccia con una mano, poi la rimetto, la riabbasso e la rialzo.
A Milano il treno si riempie.
Per metà.
Di questi virtuosismi legati all’abitudine si trova traccia anche al di fuori della stazione, in un uso dello spazio circostante contrassegnato da alcuni punti importanti: bistrò, panetteria, giornalaio, passaggio pedonale, semaforo a tre luci. Punti importanti attraverso i quali la persona esperta passa senza prestare troppa attenzione, anche se ha l’abitudine di fermarvici per riscaldarsi, informarsi o, nel caso degli ultimi due, di mettere alla prova, se è di umore un po’ bizzarro e contestatario, i suoi riflessi e la sua capacità di accelerazione.
Come di consueto mentre arrivo alla stazione di Bologna acquisto tramite la app il biglietto del regionale che mi deve condurre a Faenza. E sbaglio. Anche i posti del regionale sono dimezzati, sono costretto a comprare un biglietto per la prima classe, per la prima volta nei 23 anni spesi a viaggiare in treno mi trovo davanti all’esaurimento dei posti di seconda classe su un regionale.
Sono una ingenuo.
Non conosco più il mio habitat e provo sconcerto.
La stazione di Bologna è qualcosa di incredibile, chiunque vi abbia transitato (non mi dilungherò sulla questione) sa che è assolutamente incomprensibile. Per chiunque non la conosca è molto frequente perdersi e, di conseguenza, perdere il treno, nel tragitto che va dalla vecchia alla nuova stazione sotterranea. Un tragitto di poco meno di cinque minuti se si conosce il percorso e che possono diventare venti se si prende la questione sotto gamba.
In cerca del sapore della normalità mi incammino verso l’uscita di Via de’ Carracci per procurarmi un trancio di pizza-kebab, l’orribile abitudine a cui cedo ogni volta nell’interscambio. Realizzo che c’è qualcosa che non va: alcune scale mobili sono chiuse, ci sono transenne e cordoni gialli, la mia sicurezza vacilla. Ci metto il doppio del tempo necessario a raggiungere l’uscita e ho meno di venti minuti prima che parta il mio regionale.
Mi preoccupo, dubito di farcela, che tipo di percorso mi faranno fare per attraversare nuovamente la nuova stazione e raggiungere la vecchia? Di nuovo ho perso i miei appigli, sono diventato un passeggero qualsiasi che transita per la prima volta dalla stazione di Bologna.
Rinuncio al trancio di pizza e mi incammino studiando la segnaletica temporanea affissa alle pareti e tentando per due volte di entrare in corridoi chiusi, a un certo punto c’è addirittura una rotonda pedonale! Salgo le scale che mi conducono al binario 4, un addetto mi chiede se sono diretto al regionale o alla Freccia. Chi sale sulle frecce viene misurato, chi sale sul regionale ha via libera. Non e capisco la logica.
Per la maggior parte i percorsi singoli nel metrò sono quotidiani e obbligatori. Non si sceglie di conservarli o meno nella memoria: se ne resta impregnati, come del ricordo del servizio militare. C’è solo un passo, che è capitato di fare a noi tutti, da qui all’immaginare che, all’occorrenza, se ne può avere un ricordo più o meno compiaciuto. Dopotutto essi non rinviano solo a sé stessi, ma a un certo momento della vita percepito improvvisamente (illusoriamente, forse) nella sua totalità. Come se l’individuo che consulta una mappa del metrò riscoprisse, a volte, il punto di vista (in parte analogo a quello di cui André Breton postulava l’esistenza all’origine della visione surrealista) a partire dal quale si lasciano percepire in trasparenza, stranamente solidali a distanza, i meandri della vita privata e i rischi della professione, le pene del cuore e le congiunture politiche, le sventure del tempo e il piacere di vivere.
Le porte del regionale funzionano in modo alterno ora, alcune sono adibite all’entrata, altre all’uscita. Mi dirigo verso la prima classe. La prima classe dei regionali è uguale alla seconda classe, solo che sulla porta d’accesso ci sono dei foglietti bianchi con il numero “1” e il biglietto costa 7,90 invece di 4,75. Tutti hanno la mascherina e anche qui ci si siede a posti alterni. Mi avvicino a un posto che immagino libero, chiedo conferma e il giovane seduto di fronte mi fa un cenno incomprensibile. Forse parla, forse no, non lo capisco dietro la mascherina. Non è amichevole. Mi siedo.
Sul regionale si parla di più al telefono rispetto all’alta velocità, per farlo le persone si abbassano la mascherina, anche per mandare i messaggi vocali la abbassano. Io soffro di allergia, il naso mi prude, la abbasso pure io.
Mi sento a disagio perché ho perso la mia posizione privilegiata di viaggiatore abituale, di chi sa leggere al primo sguardo la realtà che lo circonda, di chi sa sempre cosa sta succedendo.
Un po’ come se fossi un etnologo…
Arrivo a Faenza e scendo dal treno.
*I brani qui riportati sono tratti da Un etnologo nel metrò (capitolo 1: Memorie), Milano, elèuthera.