Libertà e corresponsabilità, la necessità di un dialogo

Anche questa settimana ringrazio Ezio Farinetti dell’Università della Strada per la nuova riflessione che mi gentilmente concesso. Qui invece trovate il suo intervento precedente.

Laika, Roma Piazza Vittorio

C’è un tema che in questi giorni sollecita la riflessione di molti operatori, una questione che riguarda direttamente il loro lavoro, ma che trascende in una dimensione più generale. Da una parte questo periodo di lockdown è stato per tutti una palestra di corresponsabilità. Si stava chiusi – a casa o in comunità – non solo per salvaguardarsi da un possibile contagio che ci avrebbe messo in difficoltà da un punto di vista sanitario, ma anche per non diventare noi stessi vettori sani e inconsapevoli del male, ignari agenti di trasmissione del virus verso altre persone potenzialmente più vulnerabili. È interessante notare che questo tema ha attraversato i pensieri di tutti, dagli operatori ai beneficiari dei nostri interventi.

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La quarantena come arena emotiva

Inauguro questa rubrica, destinata a raccogliere contributi di professionisti provenienti da altri ambiti, con le considerazioni scaturite dalle supervisioni psicologiche online del collega dell’Università della Strada Ezio Farinetti.

Ezio Farinetti

La nostra nuova convivenza con il virus vede notevoli risvolti anche da un punto di vista emotivo. La condizione di maggiore ritiro e l’attenzione a come stiamo ci rende sicuramente più sensibili, più in balia dei nostri vissuti: stare di più a casa è una palestra di autocentratura emotiva, amplifica l’effetto del nostro sentire.

A livello generale si è assistito, mi pare, ad un certa ciclicità. I primi tempi del lockdown sono stati comunque pervasi da quella vaga sensazione euforica che anima tutti i cambiamenti, anche quelli meno graditi: la novità viene contattata con una certa energia, ci siamo sentiti ingaggiati in prima persona in una serie di azioni protettive per noi e per altri, che hanno riempito e dato senso alle nostre giornate. Un’effervescenza quasi sorprendente ci ha portato sui balconi a cantare, a suonare, a condividere gioiosamente un comune destino di reclusione con i nostri vicini, fino a quel tempo non così considerati. Con il passare del tempo però la curva dell’umore ha passato il suo picco e ha cominciato a scendere, e si sono affacciati in molti di noi vissuti più grevi, cenni depressivi: si è progressivamente esaurita la spinta propulsiva a fare, a muoversi, ad aprirsi, e ci siamo ritrovati più soli, disorientati e senza una precisa idea del next, del nostro futuro prossimo. Due colleghi e maestri, Francesetti e Gecele, hanno parlato di questo periodo come di un’atmosfera bipolare collettiva, in un bello scritto su psychiatryonline.it dai toni poetici e fenomenologici.

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