Un paio di settimane fa fa ho avuto l’appello d’esame di Antropologia culturale per gli studenti dell’ISIA. Sono abituato a ricevere l’elenco degli iscritti alcuni giorni prima, ma venerdì ancora non avevo ricevuto nulla, così nel pomeriggio ho scritto una mail alla Segreteria ricevendo pronta risposta. Sabato ricevo una seconda mail: inusuale ma non eccessivamente strano; domenica pomeriggio ricevo una terza mail (la burocrazia degli esami in remoto è in continua evoluzione): questo comincia a sembrarmi bizzarro.
Bizzarro fino a un certo punto. In pieno lockdown, assieme ai colleghi Cingolani, Portis e Vietti, mi è capitato di occuparmi del corso di Antropologia dei contesti scolastici ed educativi per il percorso dei 24 crediti propedeutici al concorso degli insegnanti che dovrebbe tenersi in autunno.
Dovrebbe tenersi da tre autunni, a dire il vero.
La modalità scelta dal CIFIS quest’anno, vista l’impossibilità di tenere il corso in presenza, è passata attraverso la realizzazione di una serie di slide commentate. I tempi erano abbastanza stretti, a me è toccato il primo blocco di lezioni, che sono state realizzate più o meno nell’arco di due settimane e rilasciate in tre tranche. Per ben due volte ho inviato alla segreteria i file a ridosso o nel bel mezzo del weekend, la risposta è stata immediata e le lezioni sono state pubblicate sul sito di sabato o domenica.
Io sono un libero professionista, mi riprometto costantemente di tenere il lavoro al di fuori del weekend, con risultati alterni. A volte accumulo ritardi, oppure sottovaluto delle scadenze e mi trovo al computer la domenica mattina. È una “libera” scelta, dettata dal fatto che sono autonomo nella decisione dei tempi e dei modi del mio lavoro. Ma così non è per quanto riguarda le persone che lavorano nelle segreterie didattiche, che sono dipendenti e hanno dei contratti a determinare il loro tempo lavorativo.
Tutto questo prima del lockdown, quando la tripartizione delle 24 ore quotidiane, frutto della tarda modernità, (8 ore dedicate al lavoro, 8 ore dedicate allo svago e 8 ore dedicate al sonno) è andata in frantumi.
I lavori dipendenti con i quali ho a che fare hanno mostrato delle crepe, queste crepe sono state infiltrate da quella sostanza vischiosa che imprigiona tanti finti autonomi o finti professionisti. Persone che vengono costrette a un regime fiscale che dovrebbe concedere la massima libertà in cambio della rinuncia a una serie di diritti, ma che si trovano poi ad avere il peggio che i due sistemi hanno da offrire: nessuna tutela, nessun vantaggio del lavoro dipendente e orari dettati da un datore di lavoro che non dovrebbe esserlo.
Il lockdown è stato, da questo punto di vista, un buco nero che ha risucchiato lo spazio e il tempo e li ha schiacciati, restituendo un prodotto ibrido e informe, che ricorda le epifanie della new weird portate sullo schermo da Alex Garland. Ecco quindi un orso deforme che sembra parlare, anche se non dovrebbe, ecco una bizzarra fiorescenza impastata con la carne, ecco sovvertito l’ordine culturale che costruiva i confini sociali e poneva sacri tabù a guardia della soglia tra i due mondi.
Ecco i video su youtube dove mezzi busti in giacca e cravatta poggiano su gambe nude dai calzini alle mutande, ecco congiunti (e non) attraversare lo spazio domestico in déshabillé, inconsci o immemori del campo visivo della webcam, che li proietta nel mezzo di una trasmissione o di una riunione di lavoro (e poi spammati nell’infinito spazio virtuale). Ecco i dipendenti delle segreterie didattiche rispondere alle mail la domenica pomeriggio e chiudere i messaggi con «chiama pure quando vuoi, se hai bisogno».
Sarò un catastrofista, ma sono molto spaventato da questi ibridi. Prima di tutto sono, egoisticamente, spaventato dall’effetto che hanno su di me. Perché sempre più spesso, alle mie offerte di recarmi nei contesti, mi sento rispondere «ma no, non preoccuparti, se serve chiamiamo». Il mio spazio-tempo è collassato su di me, questa gravità eccessiva mi schiaccia alla mia scrivania, anche quando vorrei essere altrove e condividere quello spazio tempo con altri corpi, piuttosto che con immagini in movimento e tappeto sonoro.
Una realtà a due dimensioni, anch’essa schiacciata, come la Flatlandia di Abbot.
Tutto è cominciato dalla diffusione di massa del porno: olfatto, gusto e tatto hanno perso di valenza e poi di interesse. E poi c’è stata la serialità televisiva e il binge watching, lo streaming domestico, il sinistro compiacimento del vedere un film dal proprio cellulare invece che dalla poltroncina logora di un cinema di periferia. Con tutti quegli umori…
Erano avvisaglie, l’avanguardia di un’epoca post-sensoriale, un’epoca di persone disposte a sacrificare tre dei cinque sensi alla sicurezza. Disposte ad appiattire la propria esperienza a soli due sensi.
Perché dagli umori (tatto, gusto e olfatto) passa la malattia.
La sicurezza si è fatta abitudine, l’abitudine (vischiosa) si è infiltrata nelle crepe del lavoro e l’esperienza, appiattita a due soli sensi, si è sbarazzata di qualsiasi confine, impadronendosi delle 24 ore della giornata.
A nulla sono valse le messe in guardia di David Cronenberg o Bruce McDonald, le persone si sentiranno al sicuro nel mondo a due sensi finchè (forse) non sarà troppo tardi.
Sono solo pensieri in libertà i miei, suggestioni scaturite da un’esperienza sensoriale profonda come può essere quella di un viaggio di dodici ore in intercity notte, una sosta di ore ore in stazione e, altre tre ore di treno a seguire.
Qualche settimana fa ho avuto un confronto con alcuni gestori di locali di Torino per un progetto che stiamo portando avanti. Proprio nel momento in cui pare la scelta meno indicata, gli ho proposto di organizzare un percorso sensoriale che consenta ai turisti di attraversare i loro spazi, toccare i loro arredi, ascoltare le loro storie, annusare i loro prodotti e assaggiare i loro cibi.
Una proposta fuori dal tempo e dallo spazio. Chissà se l’atrofia dei sensi che ci ha contagiato renderà mai fattibile questo percorso.