Un innato bisogno di ordine e simmetria sembra attraversare la storia della scrittura (per lo meno nell’area occidentale e medio-orientale) e trasferirsi poi in quella della stampa. La tendenza alla regolarità delle forme è facilmente riscontrabile fin dall’antichità, basti pensare alle caselle atte a contenere i geroglifici egizi o alle linee su cui si dispiegavano caratteri cuneiformi, quasi righe di un quaderno.
È solo con il perfezionarsi dell’arte degli amanuensi, e quindi con l’introduzione dei caratteri latini, che si assiste a un fenomeno che troverà il suo compimento nella tipografia: la giustificazione. Ovviamente, trattandosi di manoscritti, è una costante approssimazione quella che porta le parole ad allargarsi o stringersi per meglio adattarsi alle colonne che scandivano le pagine, la stessa usanza di abbreviare in sigle affonda le sue ragioni in questa pratica. A metà del Quattrocento, l’argentiere Johannes Gutenberg mette a punto il sistema che gli consente di stampare il primo libro, una bibbia che contiene 42 righe per pagina, che perfeziona i tentativi dei monaci. I caratteri mobili possono essere disposti ordinatamente per dare forma a una pagina con due colonne perfettamente giustificate, cosa che accadrà fino alla fine dell’Ottocento, quando anche questa operazione di disposizione si farà meccanizzata.
Ora la vicenda si fa più tecnica, nasce infatti l’arte del design dei caratteri che, con gli anni ottanta del Novecento e l’introduzione della tipografia digitale, verranno definiti font. Tra le caratteristiche dei font vi è la proporzionalità, se le prime stampanti domestiche necessitavano di caratteri la cui larghezza delle lettere doveva essere costante (l’esempio più famoso è costituito dal Courier), i caratteri che prevedono invece una variazione nella larghezza dei glifi sono considerati di più facile lettura. Non mi soffermerò su questi aspetti, non è allo spazio delle lettere che sono interessato in questo caso, bensì allo spazio tra le lettere.
Oggi siamo portati a percepire la giustificazione dei testi come normale, molte persone affermano di provare fastidio nel vedere un testo non giustificato. Impariamo a leggere su libri giustificati, maturiamo quindi l’idea della “normalità” della giustificazione attraverso lo stesso processo educativo. Quando ci troviamo a scrivere al computer, adottiamo a nostra volta la modalità “giustificato” tra gli stili di paragrafi possibili. I software che usiamo per scrivere “aggiustano” quindi la forma del testo, aggiungendo o meno sazio tra le parole. Solamente i software più sofisticati intervengono in automatico anche sullo spazio tra i caratteri, in ogni caso ciò che si ottiene non è la “regolarità” bensì il contrario (a dimostrarlo il fatto che i nostri testi non vanno mai a capo, le righe si riadattano a prescindere dalla lunghezza delle parole e la funzione “sillabazione” non è usata quasi da nessuno). Più le righe sono brevi e maggiore sarà il senso di fastidio dato dagli spazi disomogenei, tanto che anche i quotidiani si rassegnano a non giustificare le colonne particolarmente strette.
Decenni di studio volti a restituire una gradevolezza alla lettura, attraverso la proporzionalità del carattere, vengono gettati nel cestino con il cattivo uso della giustificazione.
Il tipografo Jan Tschichold (1902-1974) fu uno sperimentatore avanguardista e contribuì in modo massiccio alla definizione dello stile modernista, in particolare con il suo volume Die neue Typographie (1928). Il volume diverrà un classico, anche se l’autore se ne distanzierà, lamentando la vicinanza tra i regimi del Novecento fecero e l’estetica modernista. Il volume si scaglia contro l’uso dei caratteri “serif”, ovvero i caratteri “graziati” da appendici che smorzano i passaggi tra una lettera e l’altra, a favore dell’assunzione dei caratteri sans-serif (detti anche “bastoni”), in particolari quelli appartenenti alla famiglia dei Grotesques (come Arial, per intenderci). Tanto per fare un esempio comprensibile a tutti e tutte: Microsoft Word fino a qualche anno fa aveva il Times New Roman come carattere automatico, un font con grazie, le versioni più recenti usano invece Calibri, un carattere sans-serif. Una seconda rivoluzione teorizzata da Tschichold, e recepita in pieno da Bauhaus, Dada e Costruttivisti russi, consiste nell’abbandono della giustificazione, in favore dell’allineamento detto a “bandiera”.
Perché questa lunga digressione tipografica? Qualche giorno fa ho inviato un report per revisione a una collega ed era impaginato a bandiera (l’impostazione di default Microsoft Word), quando mi è stato restituito con le giuste annotazioni il testo era stato giustificato. A dettare la modifica potrebbe essere stato quel senso di “fastidio” a cui ho accennato poco sopra, ma la sensazione che ho avuto è stata un’altra. Credo che la non giustificazione sia stata percepita come un errore. Non un errore in sé, bensì un errore connesso al contesto. Se avessi scritto un messaggio informale nessuno si sarebbe stupito della bandiera, ma quello era un prodotto destinato al mercato “alto” dell’accademia. Già in altre situazioni mi è capitato che colleghi deducessero una “scarsa professionalità” sulla base della ricezione di un testo non giustificato.
Nel 1986 Stanley Trollip e Gregory Sales pubblicarono uno studio che dimostrava come i tempi di lettura di un testo giustificato si allungassero rispetto a quelli di un testo impaginato con bandiera a sinistra (come quello che state leggendo), seppur non si alterasse il livello di comprensione. Questo dipenderebbe dalla necessità dell’occhio prima, e del cervello poi, di adattarsi alle variazioni. In sostanza: l’ordine apparente del giustificato nasconderebbe in realtà tantissime irregolarità, tra le parole e anche al loro stesso interno, che costituiscono un ostacolo alla lettura. Altri studi mostrerebbero anche come il nostro cervello tenda ad anticipare costantemente la lettura, scontrandosi con problemi di interpretazione del senso di questi spazi bianchi disomogenei. Sebbene questi studi fossero già discussi quando ancora il concetto di personal computer era agli albori, è proprio con la loro diffusione e la progressiva possibilità di scegliere i font che ci si inizia a interrogare sulla “leggibilità”. Oggi non solo tutti usano il computer ma molti scrivono online, proliferano quindi i siti tutorial e i blog di consigli su quali siano le buone norme da adottare per favorire la leggibilità online. Ovviamente, è diventato fondamentale seguire tali norme in un mercato competitivo, dove bisogna sgomitare per ottenere l’attenzione del lettore e fidelizzarlo. Su cosa concordano tutti questi consigli? Sulla necessità di impaginare a bandiera.
Negli ultimi anni le diagnosi di Disturbo dell’apprendimento (DSA) sono in costante aumento, molte delle motivazioni che portavano a etichettare un studente come svogliato o pigro sembrano dipendere dagli strumenti convenzionalmente scelti per educarlo. Tra le Raccomandazioni cliniche sui DSA del 2011 c’è anche quella dell’allineamento a bandiera, assieme a molte altre buone pratiche che, guarda caso, coincidono con i consigli per una buona leggibilità di uno scritto online. Questo perché ovviamente la difficoltà di lettura riguarda tutti e tutte, ma pesa particolarmente su chi presenta un disturbo, soprattutto se grave.
Ci troviamo davanti a un perfetto caso di naturalizzazione di un comportamento scorretto che penalizza tutti. Non ci sono motivazioni valide per continuare a giustificare alcun tipo di testo (anzi, le ricerche in merito ci dicono il contrario), se non il fatto che ci sembra normale farlo.
A costo di risultare scandaloso vorrei anche affermare che non c’è alcuna ragione per giustificare le pagine dei libri nel 2020. È una battaglia ardua ma da qualche parte bisogna pure cominciare. Su Zapruder abbiamo scelto di rinunciare al giustificato, anzi è proprio la proposta, arrivata dal Parco Studio, che mi ha portato a riflettere sulla cosa (non sono un esperto, volevo solo riuscire a scrivere un post sensato e minimamente documentato). Ragionare sugli strumenti con cui comunichiamo credo sia responsabilità di chiunque si interroghi sulla funzione pubblica di una disciplina e del sistema di sapere in generale. Questo per dire anche che continuerò a inviare testi non giustificati (che sia letteratura grigia o meno).
Ecco poche buone regole che facilitano la lettura di tutti e tutte, in particolare a chi soffre di DSA:
Utilizzare font semplici, possibilmente sans-serif, e non mischiare molti font diversi;
Un carattere bello da vedere non è necessariamente facile da leggere;
L’uso di due font, uno per i titoli e uno per il corpo del testo, non è una cattiva idea;
Non scrivere in MAIUSCOLO o maiuscoletto (soprattutto frasi intere);
Non scrivere con caratteri troppo piccoli, non fare righe troppo lunghe o troppo corte (orfani, vedove e via dicendo);
L’interlinea dovrebbe essere più ampia dell’altezza del carattere (quindi più di 1);
Usa l’allineamento a bandiera a sinistra e non andare a capo;
Il grassetto è un ottimo modo per evidenziare le parole;
Ci sono anche interessanti esperimenti come BeeLine che cercano di facilitare la lettura, accompagnando il susseguirsi delle righe. La sensazione all’inizio è un po’ straniante ma dalla terza riga funziona che è una meraviglia. Segnalo inoltre il font EasyReading, studiato appositamente per favorire la lettura nei soggetti dislessici.
Mi piacerebbe avere un po’ di casi etnografici che affrontino questi temi, se ci sono lettori e lettrici che operano in ambito educativo e hanno avuto modo di osservare e intervenire a proposito, sono invitate/i a contattarmi per portare avanti la riflessione.