Gli studenti accorciano nomi degli antropologi, li semplificano, così come il mondo semplifica l’antropologia. Ho impostato Google Alerts in modo da inviarmi un riepilogo settimanale in merito all’uso dei termini “antropologia” ed “etnografia” per come rilevato dal suo algoritmo. In questa rubrica vedremo assieme cosa ne esce.
Tre le segnalazioni dell’algoritmo di Google, tutte a loro modo interessanti. La prima proveniente da Soverato Web, dove il giornalista locale Ulderico Nisticò affronta a mo’ di divertissement un tema che ha costituito uno dei pilastri dell’antropologia e tuttora attrae l’attenzione di molti colleghi e colleghe, seppur con forme diverse dal passato: la parentela. Io stesso frequento la Calabria da alcuni anni e ho sperimentato con mano come il senso della parentela sia molto più forte rispetto alla mia terra natia. Le esternazioni del premier in riferimento ai congiunti, divenuti lo specchietto per le allodole del dibattito pubblico della prima settimana di maggio, erano destinate a declinarsi nella versione locale, perché
In Calabria, poi, la parentela è un concetto molto speciale, che merita un’analisi antropologica. Quando le famiglie erano numerose, con vari matrimoni, i parenti si moltiplicavano; e mentre il primo figlio aveva già nipoti, l’ultimo si sposava all’interno della famiglia della moglie di un nipote. Eccetera.
Un pezzo di costume che rimane volontariamente aderente al senso comune e che utilizza il riferimento all’antropologia in modo nemmeno così sbagliato. Il seguito si dilunga su usanze e costumi locali, tra l’aneddotica e il mito, con qualche caduta nell’allusività:
La parentela può essere anche un punto di forza, se magari si trova uno che ti dia una mano in un certo problemino… lecito, dico; per l’illecito, lascio alla fantasia del lettore.
Perciò, la genealogia dei parenti e relativi cognomi o “paranomi” o “ngiurie” era parte integrante del bagaglio di conoscenze del calabrese.
Peccato per chiusa moralista sui giovani che
spesso […] nemmeno sanno come si chiamavano di cognome le nonne paterna e materna; figuratevi, con buona pace di Conte, i “congiunti in sesto grado”.
Esternazione che non corrisponde alla mia personale esperienza con i giovani calabri del reggino, i quali magari non sono in grado di identificare il nome corretto del legame (per loro potrebbe essere d’aiuto il modulo che qualcuno o qualcuna avvezza alla disciplina ha prontamente elaborato), ma di certo non mancano di onorare la discendenza.
Il breve articolo scritto per Linkiesta da Claudia Mancina, docente di filosofia alla “Sapienza”, fa ricorso al medesimo senso comune, senza poter godere delle stesse attenuanti. La scelta di utilizzare o meno la mascherina è tema di grande attualità, ed è corretto far riferimento al termine “antropologia” tentando di portare il ragionamento su un piano generale a partire da casi specifici:
Sull’uso delle mascherine si può fare una vera antropologia. Ci vorrebbe Gadda, o forse Campanile, ma io ci provo lo stesso.
Peccato che i casi in questione siano considerazioni generaliste che lasciano il tempo che trovano:
Intanto, c’è una prima osservazione di tipo culturale: a Monteverde Vecchio, quartiere mediamente colto e di sinistra, un po’ all’antica, sono molto diffuse. Poi ci sono altre stratificazioni, per esempio di genere e di età. Senza dubbio le donne le portano molto più degli uomini.
Seppur velato da un’ironia che fatico a comprendere, non può che suscitare fastidio l’argomentazione secondo cui le donne sarebbero
più responsabili, si curano della famiglia e del bene comune; e sono anche più obbedienti.
Il discorso poi prosegue tra bacchettate moraliste sul fumo
Ragazzi e ragazze le portano di rado. Si sentono inattaccabili? Pensano che il virus non li riguardi? Sono abituati a sfidare le avversità?
In fondo sono gli stessi che si ostinano pervicacemente a fumare, come se l’elevatissimo rischio del fumo non li riguardasse
pensieri messi in testa a generiche raffigurazioni di migranti
Gli immigrati generalmente le portano, o perché fanno lavori che gliele impongono (come le consegne) o perché vogliono affermare anche così di essere bravi cittadini
e una chiosa buonista e conciliante a suggello. A mancare a questa “antropologia” sono le radici su cui dovrebbe reggersi, e cioè la pratica etnografica. L’attuale impossibilità di svolgere etnografia ha spinto diversi antropologi a esternazioni online più vicine alla tuttologia che a considerazioni basate su expertise professionali. Fortunatamente non sono mancati gli interventi di colleghi e colleghe competenti sia in merito alla possibilità di fare ricerca che sull’utilizzo della mascherina.
Anche se Google mi rimanda a Il fatto alimentare, scopro che l’ultimo articolo della rassegna proviene da Georgofili.info, ed è stato protagonista di un numero incredibili di rimbalzi: da una rapida ricerca è possibile individuare almeno una decina di siti che l’hanno ripubblicato. Seppur l’articolo sia corretto, e corredato di riferimenti pertinenti, non trovo informazioni del suo autore, per cui Marco Ginanneschi resta per me un personaggio misterioso.
Forse tanta popolarità è dovuta all’attenzione sempre maggiore che le modalità di produzione, preparazione e servizio del cibo stanno raccogliendo in questo primo scampolo di fase 2.
Utilizzando la “lanterna dell’antropologo”, cercheremo qui di illuminare (con brevi flash) le tante valenze culturali del concetto di cibo per immaginare quindi le possibili conseguenze di Covid-19.
Seppure il pezzo sia compilativo e costruito come un susseguirsi di ipotesi sul futuro, ha il pregio di avviare riflessioni che spaziano su differenti piani: dalla sicurezza alimentare a livello globale, alla questione identitaria, fino alla valenza rituale. Un articolo che volontariamente galleggia sulla superficie con il pregio di coinvolgere il pubblico più generalista e incuriosirlo, fornendo anche spunti per approfondire.